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Spionaggio Industriale?-Costi-Prezzi-Tariffario- Listino -Chiedi un preventivo

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 Quanto costa svolgere investigazioni aziendali per indagini di contriospiuonaggio aziendalie-industriale?

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Lo spionaggio industriale si concretizza nella fuga di notizie  riservate e/o sottrazione illecita di informazioni industriali e commerciali ai danni di un’impresa; basata  sulla conoscenza e divulgazione del  know how di un’azienda  in termini di competitività a favore di competitors o ex dipendenti, amministrati  corrotti e disonesti. 

 

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Il calo della performance, la perdita di una commessa, preventivi ignorati o comunicati ai concorrenti, lo scarso interesse dei soci/dipendenti nel tutelare gli interessi aziendali, l'assenza ingiustificata, il concorrente che vince la gara con una offerta più bassa e così via. 

Lo spionaggio industriale è un'attività sempre esistita e con l’era tecnologica ha stravolto tutte le attività industriali per copiare brevetti o carpire segreti di un particolare prodotto e superare la concorrenza. Il controspionaggio industriale serve a difendere i segreti industriali ed a tutelare i propri marchi e brevetti. Spesso, gli attacchi di spionaggio industriale vengono messi in atto da aziende rivali, per sconfiggere l’azienda concorrente. Richiedi una consulenza all’agenzia IDFOX

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di lavoro ai fini di ricercare le prove dei comportamenti illeciti del lavoratore.

 

Con due recenti sentenze della Cassazione viene confermato, ancora una volta e dopo la modifica dell’art. 4 della l. 20/05/1970 n. 300 (statuto dei lavoratori) ad opera del d.lgs. 30/06/2015 n. 115, la legittimità dei controlli difensivi posti in essere dagli istituti di investigazioni volti ad accertare comportamenti illeciti del lavoratore.

 

La prima sentenza prende in considerazione i controlli tecnologici e afferma che “In tema di cd. sistemi difensivi, sono consentiti, anche dopo la modifica dell’art. 4 st.lav. ad opera dell’art. 23 del d.lgs. n. 151 del 2015, i controlli anche tecnologici posti in essere dal datore di lavoro finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purché sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all’insorgere del sospetto.

 

Nella specie, la Suprema Corte, in accoglimento del motivo di ricorso incentrato sulla violazione dell’art. 4 st.lav., ha cassato la pronunzia del giudice del gravame, sul rilievo che quest’ultimo, nel ritenere utilizzabili determinate informazioni poste a base della contestazione disciplinare ed acquisite tramite “file di log” in conseguenza di un “alert” proveniente dal sistema informatico, aveva omesso di indagare sull’esistenza di un fondato sospetto generato dall'”alert” in questione, di verificare se i dati informatici fossero stati raccolti prima o dopo l’insorgere del fondato L’investigatore può eseguire i controlli difensivi commissionati dal datore sospetto, nonché di esprimere la necessaria valutazione circa il corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore.

 

Pertanto la possibilità di attivare i controlli difensivi è oggi ammessa nella misura in cui gli stessi siano mirati a singoli dipendenti, in relazione ai quali vi sia un fondato sospetto circa la commissione di un illecito e avvengano ex posto rispetto all’insorgere del sospetto stesso.

 

La supreme corte prosegue affermando che “La giurisprudenza di merito e la dottrina si sono poste la questione della eventuale sopravvivenza dei c.d. “controlli difensivi” dopo la modifica dell’art. 4 St. lav. ad opera del D.Lgs. n. 151 del 2015, art. 23. Ne’ dall’una ne’ dall’altra sono venute risposte univoche. La risposta è stata affermativa, i controlli difensivi, sopravvivono alle modifiche del 2015 relative all’art. 4 dello statuto dei lavoratori. Fissa però alcuni punti che dovranno essere attentamente considerati dall’investigatore privato e precisamente che  “Inoltre, e il punto e’ particolarmente rilevante nel caso in esame, per essere in ipotesi legittimo, il controllo “difensivo in senso stretto” dovrebbe quindi essere mirato, nonche’ attuato ex post, ossia a seguito del comportamento illecito di uno o piu’ lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il fondato sospetto, sicche’ non avrebbe ad oggetto l’attivita'” – in senso tecnico – del lavoratore medesimo. Il che e’ sostanzialmente in linea con gli ultimi approdi della giurisprudenza di questa Corte, piu’ sopra richiamati, in materia di “controlli difensivi” nella vigenza della superata disciplina.

 

Poi conclude la corte di legittimità affermando il principio di diritto che “Sono consentiti i controlli anche tecnologici posti in essere dal datore di lavoro finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, purche’ sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla liberta’ di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignita’ e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all’insorgere del sospetto.

 

Pertanto la Cassazione con la seconda sentenza sotto riportata, conferma la liceità dei controlli difesinvi in senso stretto affermando che “La giurisprudenza di questa Corte ha quindi elaborato, onde consentire al datore di lavoro di contrastare comportamenti illeciti del personale, la categoria dei c.d. “controlli difensivi”. Secondo l’indirizzo giurisprudenziale piu’ recente e piu’ evoluto, “esulano dall’ambito di applicazione dell’art. 4, comma 2, St. lav. (nel testo anteriore alle modifiche di cui al D.Lgs. n. 151 del 2015, art. 23, comma 1) e non richiedono l’osservanza delle garanzie ivi previste, i “controlli difensivi” da parte del datore se diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale, tanto piu’ se disposti ex post, ossia dopo l’attuazione del comportamento in addebito, cosi’ da prescindere dalla mera sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa. (Nella specie, e’ stata ritenuta legittima la verifica successivamente disposta sui dati relativi alla navigazione in internet di un dipendente sorpreso ad utilizzare il computer di ufficio per finalita’ extralavorative)” (Cass., 28 maggio 2018, n. 13266).

 

Da quanto sopra affermato risulta necessario che nel conferimento dell’incarico sia inserito il nome e il cognome del lavoratore che si intende controllare perché in caso contrario, e quindi mancando uno specifico soggetto a cui addebitare gli illeciti, si ravvisa a parere della corte l’impossibilità di applicare i principi sopra affermati.

 

L’inserire quindi il nome del soggetto su cui si pone l’indagine è anche indispensabile affinchè si possa uscire vittoriosi da un eventuale processo penale per molestia, instaurato dal soggetto pedinato versus l’investigatore privato.

 

Di seguito le sentenze in forma integrale

 

 

 

Corte di Cassazione, IV – Lavoro civile, sentenza 12 novembre 2021, n. 34092

 

 

 

 

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

SEZIONE LAVORO

 

SENTENZA

 

sul ricorso 14076/2019 proposto da:

 

F.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE CARSO N 71, presso lo studio dell’avvocato NICOLA PAGNOTTA, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati CESARE POZZOLI, ANGELO GIUSEPPE CHIELLO;

 

– ricorrente principale –

 

TAMBURI INVESTMENT PARTNERS S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEI CAPRETTARI, 70, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO GATTI, rappresentata e difesa dall’avvocato PAOLA TRADATI;

 

– controricorrente – ricorrente incidentale –

 

contro

 

F.A.;

 

 

Ransomware, due aziende su tre sono colpite dal malware che prende i dati in ostaggio. Colpita anche Coca-Cola con richiesta di maxi riscatto

 

Il 66% delle aziende sono state colpite da un attacco ransomware nell'ultimo anno. Lo evidenzia il nuovo rapporto “State of Ransomware 2022” realizzato a cura di Sophos. Quintuplicato rispetto allo scorso anno il riscatto medio pagato per recuperare i dati, che si attesta sui 812.360 dollari, e il 46% delle aziende i cui dati sono stati criptati a seguito dell’attacco ha deciso di pagare il riscatto.

 

 

 

Il Rapporto globale nella sicurezza informatica, analizza l’impatto che il ransomware ha avuto su 5.600 aziende in 31 paesi nel mondo, Italia compresa.

 

Nel nostro Paese, il 61% del campione di aziende prese in esame nel rapporto è stato colpito da ransomware nell’ultimo anno mentre il 27% si aspetta di essere colpito in futuro. Delle aziende italiane colpite da ransomware, il 63% ha subìto la crittografia dei file, mentre il 26% è riuscito a bloccare l’attacco prima che i dati venissero criptati.

 

Il 43% ha pagato il riscatto e ha recuperato i propri dati, mentre il 78% dichiara di essere riuscito a recuperare i dati grazie al proprio backup. Tra le aziende italiane che hanno pagato il riscatto, il 24% ha recuperato circa la metà dei propri dati e solo il 3% è riuscito a recuperare la totalità dei dati sottratti dai cybercriminali.

 

L’entità del riscatto pagato si attesta nella maggior parte dei casi (37% del campione) tra i 100.000 e i 249.999 dollari.

 

Il 55% delle aziende italiane colpite ha dichiarato che l’impatto sulla propria operatività di business è stato molto alto e che il recovery time è stato fino a 1 settimana per il 36%, fino a un mese per il 34%, mentre solo l’11% del campione ha ripristinato la normalità in meno di un giorno.

 

Per quanto riguarda l’assicurazione dai rischi cyber, il 47% del campione dichiara che la propria polizza copre anche i danni causati da un attacco ransomware, il 7% pur avendo un’assicurazione cyber non ha copertura per questa tipologia di attacco e il 5% del campione dichiara che la propria azienda non ha un’assicurazione contro i rischi cyber.

 

 

 

Nello scenario internazionale, proprio nelle ultime ore è stata data notizia che il gruppo ransomware Stormous ha annunciato di aver colpito la multinazionale Coca-Cola Company, e di aver esfiltrato oltre 160 GB di dati. Il riscatto richiesto all’azienda sarebbe di oltre 64 milioni di dollari statunitensi, ovvero 1,6467000 Bitcoin. A quanto pare, il gruppo di criminali informatici avrebbe anche lanciato prima un sondaggio sul proprio gruppo Telegram chiedendo agli utenti di scegliere il prossimo bersaglio, e la Coca-Cola Company avrebbe “vinto” con oltre il 70% di preferenze.

 

Consapevole degli enormi rischi che comporta per le imprese che vengono colpite da questo pericoloso tipo di malware, il Gruppo di Lavoro per la sicurezza delle informazioni che opera in seno agli organi competenti, a nelle scorse settimane ha realizzato una specifica infografica a scopo informativo e divulgativo, che è liberamente scaricabile dal sito dell’associazione, e che ha già registrato oltre 1.000 download.

 

 

 

 

 

 

Appropriazione di file aziendali: cosa si rischia?

Licenziamento e responsabilità penale per il reato di appropriazione indebita in capo al dipendente che fa il backup dei file o che trasferisce i dati informatici dal computer aziendale a quello personale (anche tramite email).

Non è infrequente che un dipendente faccia il backup dei dati salvati nel computer aziendale su cui ha lavorato per anni. E lo faccia, ovviamente, non certo per “ricordo” ma per avvalersene in una eventuale successiva attività “in proprio” o alle dipendenze di un concorrente. Ebbene, cosa si rischia per l’appropriazione di file aziendali? Di tanto si è occupata più volte la giurisprudenza. Ecco una sintesi delle principali pronunce che si sono occupate di questo spinoso argomento.

Indice

* 1 Furto di documento e backup di file aziendali

* 2 Accesso abusivo a sistema informatico

* 3 Appropriazione indebita

Furto di documento e backup di file aziendali

Secondo una recente sentenza della Cassazione [1] è legittimo il licenziamento per giusta causa di un lavoratore che abbia sottratto documenti aziendali contenenti informazioni “sensibili” relative all’esercizio dell’attività d’impresa (‘know-how’).

La regola in materia di licenziamento è quella secondo cui intanto si può risolvere il rapporto di lavoro in quanto il comportamento viene ritenuto così grave da ledere definitivamente il rapporto di fiducia che deve sussistere tra datore e dipendente. Tuttavia, nel caso di furto di documenti o appropriazione di file aziendali, ai fini della valutazione della gravità della condotta non ha rilievo alcuno la natura del materiale sottratto, ossia la circostanza che il lavoratore non abbia potuto trarre un’effettiva utilità dalla documentazione (si pensi a file ormai datati e privi di alcun valore commerciale). Infatti, secondo la Cassazione, basta accertare la provenienza aziendale del materiale sottratto: già tale comportamento, a prescindere dalle ripercussioni economiche per il datore e dalla utilizzabilità dei documenti, può definirsi sufficientemente grave per far perdere ogni rapporto di fiducia nel corretto operato del lavoratore. 

Né rileva – aggiunge la Corte – che i file “backuppati” o la documentazione sottratta sia di normale consultazione o che ne sia consentita l’asportazione al di fuori dei locali aziendali. Anche qui vale lo stesso ragionamento di prima: basta il semplice fatto di aver voluto utilizzare per scopi extralavorativi il materiale per configurare come grave il comportamento e quindi passibile di sanzione disciplinare.

Ai fini dell’adozione del licenziamento rileva, quindi, la sola provenienza aziendale della documentazione.

L’orientamento non è nuovo. Già in passato, la Cassazione [2] aveva confermato il licenziamento di un lavoratore sorpreso mentre trasferiva su una pen-drive di sua proprietà un numero consistente di file informatici e dati appartenenti all’impresa. Anche in tal caso è stata riconosciuta la legittimità del licenziamento del lavoratore. In tale occasione, i giudici hanno rilevato che, per poter parlare di illecito disciplinare e applicare la relativa sanzione espulsiva, non rileva che:

* i dati non siano stati divulgati a terzi: basta la semplice sottrazione;

* i dati non siano protetti da password. Difatti la circostanza che al lavoratore sia consentito accedere alla documentazione non lo autorizza ad appropriarsene, «creando delle copie idonee a far uscire le informazioni al di fuori della sfera di controllo del datore di lavoro».

Accesso abusivo a sistema informatico

Passiamo dall’ambito civile a quello penale. Un reato spesso commesso in ambito aziendale è quello di accesso abusivo a sistema informatico. Si verifica tutte le volte in cui un dipendente acceda alla postazione di un collega per reperire dati a cui altrimenti, dal proprio computer, non avrebbe accesso. Stesso discorso nel caso in cui, tra i due colleghi, vi sia cooperazione, sicché l’uno invii all’altro i file o le informazioni in questione [3].

L’accesso al sistema informatico della società non è uguale per tutti: alcuni infatti possono consultare tutte le informazioni di “base” della clientela (nomi, cognomi, indirizzo, tipologia di contratto, ecc.); altri invece hanno la possibilità di visualizzare ulteriori dati più riservati, anche sensibili come ad esempio il reddito dichiarato, eventuali rischi collegati alla persona e alla sua attività, trascorsi penali, ecc.

Se un dipendente ha bisogno di analizzare alcune informazioni relative a un cliente e il suo computer non dispone delle autorizzazioni necessarie per visualizzare l’intera scheda, potrebbe chiedere a un collega di inoltrargli il file dalla sua postazione, invece abilitata a tale verifica.

Quest’ultimo potrebbe, anche solo per mera cortesia, “girare” la mail con l’allegato. Tale condotta può costituire reato? Assolutamente sì. Lo hanno confermato anche le Sezioni Unite [4] secondo cui integra il delitto di accesso abusivo a sistema informatico la condotta di «colui che, pur essendo abilitato, acceda o si mantenga in un sistema informatico o telematico protetto violando le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l’accesso». Sono «irrilevanti, ai fini della sussistenza del reato, gli scopi e le finalità che abbiano soggettivamente motivato l’ingresso nel sistema». Lo stesso reato scatta nei confronti di chi, «pur non violando le prescrizioni formali impartite dal titolare di un sistema informatico o telematico protetto per delimitarne l’accesso, acceda o si mantenga nel sistema per ragioni ontologicamente estranee rispetto a quelle per le quali la facoltà di accesso gli è attribuita» [5]. 

Secondo i giudici della Cassazione, dunque, in base agli orientamenti delle Sezioni unite, deve ritenersi responsabile di accesso abusivo al sistema informatico anche colui che abbia fatto sorgere il proposito criminoso nel collega (autore materiale del reato), istigandolo all’invio delle email contenenti informazioni riservate cui egli non poteva accedere perché non abilitato dal datore di lavoro in ragione del fatto che la conoscenza di tali informazioni non era necessaria ai fini dello svolgimento dei suoi compiti.

Appropriazione indebita

Sempre secondo la Suprema Corte [6], si può parlare di responsabilità penale del lavoratore per il reato di appropriazione indebita nel caso in cui questi restituisca al datore di lavoro il computer aziendale formattato, dopo aver copiato i dati ivi contenuti su un dispositivo personale.

Il reato di appropriazione indebita punisce con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da 1.000,00 a 3.000,00 euro chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropri di una cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso. Ai fini dell’integrazione degli estremi del reato, il soggetto deve quindi indebitamente appropriarsi di una ‘cosa mobile’ altrui. E tale anche la cosa immateriale, come un un dato informatico o un file contenuto in un computer, anche se dato in dotazione al dipendente dall’azienda stessa. I file infatti continuano ad essere di proprietà dell’azienda stessa.

Naturalmente, il reato di appropriazione indebita non richiede necessariamente il backup dei file su una pen-drive. Ben potrebbe configurarsi la responsabilità penale per il semplice fatto di inviare i file tramite email dall’account aziendale a quello personale in modo da salvarli poi a casa su un altro hard disk.

 

note

[1] Cass. sent. n. 2402/22 del 27.01.2022.

[2] Cass. sent. n. 25147/17 del 24.10.2017. 

[3] Cass. sent. n. 565/2018.

[4] Cass. S.U. 27 ottobre 2011, n. 4694

[5] Cass. S.U. 18 maggio 2017, n. 41210.

[6] Cass. sent. 10 aprile 2020, n. 11959.



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Di seguito riportiamo alcuni articoli (fonte internet)

E’ guerra tra colossi. PayPal ed eBay hanno deciso di tirare fuori le unghie per difendersi da Google. L’accusa è pesante: spionaggio industriale. La vicenda ricalca, per certi versi, la battaglia scoppiata quattro anni fa tra Ferrari e McLaren. Nel 2007, Nigel Stepney, allora capomeccanico del Cavallino, passò i progetti della monoposto rossa alla scuderia tedesca. La spy story ad alta velocità, che si è trascinata per anni, scatenò il finimondo nella Formula Uno. Oggi, un ciclone simile rischia di abbattersi sul settore dell’informatica. PayPal (acquistata nel 2002 dal sito d’aste) ed eBay hanno infatti deciso di fare causa a Google e a due suoi dirigenti per aver rubato i segreti necessari a realizzare il nuovo sistema di pagamento che, a partire dall’estate, permetterà negli Stati Uniti di usare il cellulare al posto dei contanti. Google, che solo ieri aveva annunciato la nuova iniziativa, deve già affrontare la prima tegola. Per il momento, il motore di ricerca ha deciso di non rispondere alle accuse. “La causa – scrive la Reuters – evidenzia come sia in corso una battaglia a tutto campo per cercare di assicurarsi una posizione di vantaggio in un settore che potrebbe valere qualcosa come un miliardo di dollari”. Il telefonino, secondo gli esperti, è infatti destinato a diventare il portafoglio del futuro.

Secondo eBay, Osama Bedier e Stephanie Tilenius, due ex manager di PayPal passati poi a Google, avrebbero utilizzato le conoscenze acquisite nella loro vecchia azienda per realizzare Google Wallet, il servizio con cui Mountain View è convinta di mandare in pensione banconote e carte di credito. Tilenius ha lavorato per eBay dal 2001 al 2009 e poi è stata consulente della società fino a marzo del 2010. La dirigente è stata assunta da Google con la carica di vicepresidente per l’e-commerce. Secondo il sito d’aste, la donna avrebbe rotto una clausola contrattuale, offrendo a Bedier di passare alla concorrenza. Pochi giorni prima del cambio di casacca, Bedier avrebbe trasferito sul suo pc una serie di documenti in cui erano tracciate le strategie di PayPal per quanto riguarda i pagamenti con i telefonini.

In pochi giorni sarebbe così andato in fumo un lavoro di tre anni: PayPal dal 2008 stava cercando di raggiungere un accordo con Google per gestire le transazioni su tutti i telefonini dotati di Android, il sistema operativo sviluppato da Mountain View. In sostanza, eBay sostiene che il motore di ricerca, assumendo i due manager e rifiutandosi di concludere l’affare, avrebbe in realtà comprato la chiave per abbattere la concorrenza. Il cyber portafoglio vedrà la luce solo tra qualche mese, nel frattempo toccherà al tribunale della California stabilire se c’è già stato un tentativo di scippo

Ex dirigente di Flextronics, Walter Shimoon, si è dichiarato colpevole di aver venduto ad altre imprese segreti industriali su iPad e iPhone nel processo che ha seguito il suo arresto nel dicembre 2010.
Mentre Flextronics produceva componenti per Apple, Shimoon aveva degli incontri con operatori di borsa specializzati in fondi speculativi durante i quali rivelava quanto di sua conoscenza. Gli incontri erano pagati 200$ la ora (circa 139€).

Le notizie più succulenti erano quelle che riguardavano i dispositivi portatili di Apple. Allora si parlava dei piani di Cupertino per l’iPhone 4, della sua data d’uscita e delle sue caratteristiche tecniche. Altre rivelazioni di Shamoon riguardavano il segretissimo progetto K48, in altre parole l’iPad, di cui annunciò la prossima uscita. Shimoon ha anche ammesso di aver accettato 27.500$ (19.154€) da Broadband Research in cambio di informazioni. L’avvocato della Broadband Research, John Kinnucan, ha negato la totalità delle dichiarazioni specificando che l’impresa non ha commesso nessun illecito.
Al centro dell’inchiesta vi sono le cosiddette “Reti di Esperti”: gruppi di funzionari di varie compagnie tecnologiche che vengono reclutati per informare gli operatori dei fondi speculativi. Il ruolo degli esperti è di svelare i futuri passi di compagnie come Apple, attraverso il loro conoscimento di prima mano sui prodotti in fase di sviluppo. Compagnie come Kingdom Ridge hanno incassato cospicui profitti negli ultimi anni grazie, fra gli altri, alle indiscrezioni di Shimoon.
Un caso simile a quello di Walter Shimoon, nel quale l’imputato si era anch’egli dichiarato colpevole, è quello che vide implicato l’ex manager di Apple Paul Shin Devine. Devine fu accusato nell’estate del 2010 di aver accettato “tangenti e altri incentivi” in cambio di segreti commerciali e si dichiarò colpevole dei 23 capi d’accusa che includevano frode, cospirazione e riciclaggio di denaro. La sentenza per Shimoon è prevista per l’8 luglio 2013: rischia fino a 30 anni di carcere.

Firenze, 18 maggio 2012 - Passava disegni, progetti, indicazioni specifiche e altro 'know how' segreto ad alcune società concorrenti del Nuovo Pignone spa (General Electric Oil&Gas): oggi il tribunale di Firenze lo ha condannato a sei mesi di reclusione con risarcimento del danno demandato al giudizio in sede civile.
L'imputato è un venditore, 68 anni di Campi Bisenzio (Firenze), della divisione service dell'industria fiorentina, divisione che è specializzata in assistenza per la manutenzione di impianti per l'estrazione, il trasporto e la distribuzione di petrolio e gas. Stando a quanto emerso, il venditore aveva accesso alla banca dati da cui, tra il 2004 e il 2006, ha scaricato disegni per la realizzazione di parti di ricambio come pompe, valvole per turbine, codici, prezzi praticati sui ricambi, quest'ultima informazione assolutamente top secret coperta da identificativi in codice. Secondo l'accusa le informazioni andavano a concorrenti del Nuovo Pignone, che potevano così interferire nelle trattative commerciali con clienti di Russia e Iran, potendo produrre esse stesse ricambi 'copiati' dai disegni scaricati dalla banca dati e conoscendo anche il prezzo che Nuovo Pignone- Ge Oil&Gas avrebbe offerto. Con questa condanna, commenta in un comunicato Nuovo Pignone  (GE Oil&Gas), parte civile assistita dagli avvocati Nino e Michele D'Avirro ''il tribunale di Firenze ha dimostrato di prendere molto sul serio il crimine di sottrazione di proprietà intellettuale. ''Costruire e mantenere programmi globali di ricerca e sviluppo tecnologico ha un costo considerevole e altrettanto considerevole è stato il danno arrecato al Nuovo Pignone dalla sottrazione di proprietà intellettuale. La decisione del tribunale contribuirà a scoraggiare simili comportamenti illegali in futuro e a proteggere il Nuovo Pignone quale significativo contribuente all'economia della regione.

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